Cos’è l’abuso di dipendenza economica



Sempre con maggior frequenza si sente parlare di abuso di dipendenza economica.

Una nozione divenuta ormai ricorrente nelle tematiche soprattutto collegate alla distribuzione commerciale e che merita qui una certa attenzione, seppur compatibilmente con gli spazi limitati di questo blog.

L’abuso di dipendenza economica, che  si converte nella soggezione economica di un imprenditore (debole) nei confronti di un altro (forte), costituisce la traduzione, in termini giuridici, di una situazione di monopolio, o quasi monopolio, nella quale una impresa viene a trovarsi nei confronti di un’altra o di altre.

Si tratta di una fattispecie normata.

               

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L’abuso di dipendenza economica viene infatti previsto dall’art. 9 della l. 192/1998 (c.d. legge subfornitura) il quale vieta: “l’abuso da parte di una o piu’ imprese dello stato di dipendenza  economica  nel  quale  si  trova,  nei  suoi  o  nei loro riguardi,  una  impresa cliente o fornitrice”.

Sempre il citato art. 9 individua poi la dipendenza economica  in quella situazione  “in  cui  un  impresa  sia  in  grado  di determinare,  nei  rapporti  commerciali  con  un’altra  impresa,  un eccessivo   squilibrio  di  diritti  e  di  obblighi”.

Onde evitarne una sua irragionevole estensione, la situazione di dipendenza economica viene circoscritta in ambiti circostanziati, dovendo individuarsi solo previa valutazione della reale possibilita’,  per  la  parte  che  abbia  subito  l’abuso,  di  reperire sul mercato alternative soddisfacenti.



Abuso  che, come prevede il predetto art. 9, puo’  anche  consistere  nel  rifiuto di vendere o nel rifiuto  di  comprare,  nella  imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente  gravose  o  discriminatorie,  nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

Sotto un profilo puramente sostanziale tale situazione si manifesta in un minor potere contrattuale, cioè nella ridotta o annullata capacità per l’imprenditore c.d. debole nello svolgimento delle trattative con altro imprenditore (forte) che gli impedisce di ottenere condizioni contrattuali a sé più favorevoli.

Quella che contraddistingue la posizione dell’imprenditore debole è una  minorata libertà di contrattazione determinata dalla difficoltà, o impossibilità, di reperire alternative sul mercato di riferimento cui corrisponde il potere, della impresa contrattualmente forte, di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi tra le parti.

               

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La dipendenza economica (c.d. countervailing power) identifica dunque la situazione in cui un’impresa predominante sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi in un’ottica mercantile.

Centrale nell’individuazione della fattispecie sono due elementi: la rilevanza degli investimenti reali effettuati dall’impresa debole, nell’ottica di una continuazione del rapporto con l’impresa forte, e se effettivamente l’impresa c.d. dominante rappresenti l’unica chance per l’impresa sottoposta.

In altri termini determinante si rivela la verifica degli investimenti e l’impossibilità per l’impresa sottoposta di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.

Quanto al primo e principale sintomo della dipendenza economica, evidenziato dalla giurisprudenza (v. ordinanza Trib. Bergamo 4.1.2017), questo è rappresentato dall’esecuzione da parte dell’imprenditore debole di una serie di investimenti specifici (relational specific investments), nell’ottica di far fronte agli impegni contrattuali assunti con l’imprenditore forte.



L’imprenditore debole si trova così esposto al ricatto (hold up) dell’imprenditore forte, giacchè la minaccia di interruzione del rapporto lo costringe a proseguirlo accettando condizioni inique, di fronte all’eventualità (laddove sul mercato non siano reperibili dei validi “sostituti”) di non riuscire ad ammortizzare gli investimenti che ha fatto nel tempo, o di dover affrontare dei costi elevati per la loro riconversione (switching costs).

A tale riguardo, la normativa speciale sul franchising (L. 6 maggio 2004, n. 129, art. 3, comma 3) detta esplicitamente una tutela a favore del franchisee, imponendo all’affiliante, in ipotesi di contratti a tempo determinato, la garanzia di una durata minima del rapporto, sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni.

Tipici i casi della distribuzione integrata di veicoli e del franchising, dove – rispettivamente – il concessionario e il franchisee, avvinti da un contratto che li lega in esclusiva all’altra parte e che impone loro dei minimi di target, effettuano cospicui investimenti nell’attività (per allestire i locali, per assumere del personale, per acquisire il know how, per sostenere campagne promozionali, etc.), ciò anche e soprattutto nell’interesse del partner forte, nella speranza di un lungo periodo di collaborazione: investimenti che, in caso di recesso ad nutum, vengono ad essere vanificati e difficilmente possono essere riconvertiti.

Ciò detto, legittima diviene la domanda su quali siano gli strumenti a tutela della parte contrattualmente più debole.

E a questo riguardo interviene lo stesso legislatore introducendo, con l’art. 9, la sanzione della nullità di quegli accordi con i quali si realizza la dipendenza economica, la cui accertata ricorrenza determinerà, come ulteriore eventuale conseguenza, legittime richieste risarcitorie da parte dell’imprenditore che si afferma leso.



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